Review: psicoterapia del paziente grave

Psicoterapia Cognitiva del Paziente Grave

L’ipotesi generale è che durante un rapporto psicoterapeutico, il pz. costruisce in maniera autonoma delle rappresentazioni degli stati mentali del terapeuta per comprendere e padroneggiare i propri disturbi, ma questo processo è ostacolato nei “pazienti difficili” (termine utilizzato da Carlo Perris in un suo libro del 1993) da specifici deficit metacognitivi. Si assume che sia comunque possibile, regolando la relazione terapeutica, “insegnare” al pz. ad attivare le necessarie operazioni mentali autoterapeutiche. Durante la seduta, si pensa che il riconoscimento, la segnalazione e la condivisione di stati mentali del pz, possa favorire lo sviluppo delle capacità metacognitive deficitarie che rendono possibile a loro volta l’applicazione di altre tecniche.

Definiamo quindi cosa è la metacognizione (MC).

(Storia). La definizione trova la sua origine nelle ricerche di Flavell sui bambini (primi anni ’70), ma essenzialmente, in questo periodo MC voleva dire metamemoria. Solo successivamente si è ampliato il concetto includendo nella MC strategie di problem-solving ed altro. La cosa che a noi interessa è sapere che nel dibattito psicologico, questo concetto è stato poi collegato ad una teoria della mente.

(Definizione, tratta da Carcione, 1997): capacità dell’individuo di compiere operazioni cognitive euristiche (euristica = teoria della conoscenza) sulle proprie ed altrui condotte psicologiche, nonché la capacità di utilizzare tali conoscenze a fini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati mentali fonte di sofferenza soggettiva.

Detto in parole più semplici (Benedett’Iddio…), la definizione si riferisce alla capacità di comprendere i propri stati mentali e di fare inferenze sugli stati mentali altrui; questa capacità non coincide con l’insight. (Sviluppi). È chiaro che questo concetto ha a che fare sostanzialmente con tre elementi:

Lo sviluppo di una teoria della mente.

Si capisce tutto da questa frase riportata da un pz.: “Quello che ho malato non è il cervello, ma la mente”; significa che il cervello è la struttura, la mente una sua funzione; ergo ciò che è compromessa è la funzione, ovvero l’uso che si fa della comprensione dei processi psicologici propri ed altrui, non la struttura.in sé che corrisponde invece alla memoria, all’attenzione, ecc.

Ciò significa che il punto 1. è legato alla capacità di comprendere, prevedere, spiegare gli stati mentali ed il comportamento di sé e degli altri; alla comprensione che la rappresentazione di tutto ciò è soggettiva (ovvero è una copia della realtà e come tale può essere vera/falsa, accettabile o no); alla comprensione che queste rappresentazioni guidano le nostre azioni.

La metacognizione fa parte della teoria della mente (e non il contrario). Il perché ce lo dice Campioni (1995): “…possedere una teroia della mente nonsignifica essere in grado di riflettere su di essa o sapere fornire una descrizione esaustiva in termini di regole, principi, processi…”

La cognizione sociale.

In sintesi (p. 17): “[…] a che servirebbero un’intelligenza ed una teoria della mente sviluppate se non riuscisse (l’uomo, ndr) a utilizzarle per stabilire relazioni significative durature e profonde?”. Si nota infatti l’incapacità di assumere qualsiasi decisione in presenza di un danneggiamento della sfera affettiva, senza tener conto se è conseguente a danni organici o psicologici. Metacognizione ed emozione sono intrinsecamente collegati fra loro. Esempio: il sapere che la distrazione riduce l’impatto con le emozioni negative o che le stesse si dissipano nel tempo è una cosa fondamentale rispetto allo sviluppo ad es. della motivazione, della presa di decisioni, ecc. La MC si caratterizza come una forma di conoscenza che si acquisisce all’interno delle relazioni, influenzandone a sua volta la qualità.

 La coscienza.

Per “coscienza” qui si intende la coscienza metacognitiva: il fatto di possedere delle rappresentazioni non vuol certo dire operare su di esse; il passo successivo è quello di essere consapevoli delle nostre capacità metacognitive. L’uomo è senz’altro un animale metacognitivo.

Quindi: a che serve la metacognizione? Serve ad elaborare una teoria della cura specifica per un determinato problema. La MC di una persona può quindi essere valutata se la dividiamo in tre sottoclassi:

  1. Autoriflessività (capacità dell’individuo di rappresentare eventi mentali e di compiere operazioni cognitive euristiche sul proprio funzionamento mentale).ò
  2. comprensione della mente altrui (capacità del soggetto di rappresentare eventi mentali e di compiere operazioni cognitive euristiche sul funzionamento mentale altrui) e decentramento  (quello di cui sopra più tenendo presente il fatto che potrebbe non essere coinvolto nella relazione e non riferendosi esclusivamente al proprio funzionamento mentale).
  3. Mastery (capacità dell’individuo di rappresentare ambiti psicologici in termini da problemi da risolvere e di elaborare strategie adeguate alla risoluzione del compito a livelli crescenti di complessità. In particolare, qui si distinguono tre livelli. In Appendice è presente una scala di valutazione della MC).

 Una nuova agenda per la psicoterapia cognitiva del paziente grave.

 Tutto il modello psicoterapeutico qui presentato si basa quindi su un assunto: il paziente “grave” o “difficile” presenta dei deficit nelle funzioni metacognitive, intendendo il termine “deficit” come carenza in determinate funzioni dell’attività mentale, che sottolinea la perdita di alcune importanti funzioni psicologiche.

Dal   punto di vista dell’intervento, si distinguono i seguenti approcci al paziente grave:

  • l’approccio categoriale (classificatorio tipo DSM, ICD, ecc.), che valorizza principalmente i contenuti mentali ideativi ed emotivi (es. criteri classificatori del DSM);
  • l’approccio dimensionale (prescinde dagli specifici contenuti ideativi – emotivi di un determinato disturbo e ne descrive il quadro clinico a partire dall’individuazione d’alterazioni in alcune funzioni metacognitive);
  • l’approccio strutturale (terapia cognitiva standard = TCS e costruttivismo); la TCS è fondamentalmente centrata su strutture e contenuti del pensiero. Gli assunti fondamentali del modello sono tre:
  1. la psicopatologia è un deficit nella elaborazione dell’informazione;
  2. paziente e terapeuta lavorano insieme per individuare gli schemi disadattivi;
  3. si cerca di modificare gli assunti disadattivi.

Vediamo le tecniche utilizzate dalla TCS:

    • empirismo collaborativo (spiegare al pz. gli obiettivi, le tappe del trattamento, verificare l’accordo reciproco su di esse);
    • dialogo socratico (far raggiungere al pz. gli obiettivi teraputic attingendo il più possibile alle sue risorse);
    • scoperta guidata (si stimola il pz. a riflettere sui suoi modi di ragionare mediante compiti di autoosservazione). Si usa la tecnica “ABC” di Ellis.

Sono comunque tutti concordi nel sostenere che l’aspetto più importante della psicoterapia passa per la relazione terapeutica; a questo proposito ricordiamo che il “Timing” è essenziale: non bisogna operare nelle fasi iniziali quegli interventi che costringerebbero il paziente ad attuare un maggior svelamento di se.

La relazione terapeutica e la tecnica del colloquio.

Perché la relazione terapeutica è così importante? Perché secondo gli autori è proprio attraverso di essa che si riesce ad influire sui livelli di funzionamento metacognitivo. Fa parte del concetto di “Alleanza terapeutica” e può essere valutata attraverso i seguenti indicatori: accordo sugli scopi, accordo sui compiti, clima interpersonale positivo di fiducia e collaborazione reciproca. È inoltre importante considerare gli atteggiamenti emotivi interpersonali del terapeuta come informazioni indirette sugli stati mentali del paziente e fare un uso tecnicamente orientato degli stati mentali del terapeuta nel corso dell’interazione col paziente; in parole semplici, bisogna sfruttare il controtransfert e l’identificazione proiettiva per “aggiustare il tiro” durante il trattamento. La condizione ottimale è che bisognerebbe essere l’uno un buon terapeuta per quel paziente e l’altro un buon paziente per quel terapeuta. Nel testo non si usa il termine classico “esperienza emotiva correttiva” ma “esperienza interpersonale” poiché secondo gli autori il cambiamento riguarderebbe non solo la componente affettiva, ma anche quella cognitiva e la disposizione all’azione. Il pz. deve percepire il terapeuta come “base sicura” per potersi avventurare nuovamente nel mondo. È  anche importante l’ “esempio” che il terapeuta esercita sul pz. rispetto all’utilizzo di strategie di pensiero adeguate.

Delicato è il momento in cui il pz. sottopone il terapeuta a test: deve essere garantita la percezione di quest’ultimo come fonte autorevole di informazione. Ricordiamo che i momenti di più alto testing corrispondono ai momenti di più basso insight. Esistono due livelli di intervento:

  1. aspecifico, sulla tecnica del colloquio (regolazione nella seduta dell’andamento della relazione per favorire l’incremento delle funzioni metacognitive);
  2. specifico, sulle strategie terapeutiche volte a ridurre i singoli deficit.

È anche importante chiedersi che tipo di rappresentazione il pz. fa della mente dell’altro durante i suoi stati problematici. Nel setting, è importante la condivisione degli stati mentali che avviene fra pz. e terapeuta.

Le tecniche che ci permettono di segnalare la condivisione sono le seguenti:

  1. segnalazione implicita attraverso la comunicazione non verbale;
  2. uso del noi universale (ad es. “tutti noi alcune volte sentiamo delle voci…”);
  3. il riferimento a stati mentali del terapeuta durante la seduta;
  4. il riferimento ad interessi personali del terapeuta di tipo culturale, hobbistico, sportivo o altro;
  5. la narrazione di episodi della vita del terapeuta.

La promozione della funzione metacognitiva attraverso l’uso delle tecniche cognitive standard.

Le tecniche standard della terapia cognitiva sono state costruite allo scopo di modificare gli schemi patogeni. Il fatto è che non è vero che il pz. non agisce sulle sue disfunzioni; vi agisce naturalmente ma in maniera non adeguata reiterando sempre gli stessi schemi patologici di previsione ed adattamento alle situazioni reali.

Ricordiamo che bisogna assolutamente evitare che il terapeuta si confronti in maniera diretta e dialogica con le idee deliranti.

Vediamo quali sono le tecniche:

  1. Normalizzazione: tutte le persone, in certe condizioni, possono avere il suo stesso tipo di esperienza (es. voci, deliri, ecc.).
  2. Spiegazione: spiegare cosa sta accadendo al paziente (sia la spiegazione che la normalizzazione non funzionano quando ci si trova di fronte a deliri di grandezza).
  3. Rilassamento: il rilassamento agisce sullo stress, contenendolo ed evitando l’insorgere di allucinazioni, ecc. (anche la semplice iperventilazione può provocare problemi), evita anche una condizione dell’organismo di over-arousal.
  4. Strategie di distrazione: (es. leggere a voce alta, sentire musica) per far fronte alle allucinazioni uditive.
  5. Invitare il pz. a formulare una o più ipotesi interpretative degli eventi esaminati. Serve ad esercitarsi ad osservare il mondo e sé stessi da differenti punti di vista.
  6. Far notare al paziente come le proprie idee siano delle profezie che si autoverificano (ad es. deliri paranoici).
  7. Pomuovere le capacità di caratterizzazione e differenziazione utilizzando il modello ABC di Ellis (molto utile quest’ultima per promuovere l’autoriflessività ma assai meno per potenziare la comprensione della mente altrui, essendo tutta focalizzata su quanto accade nel soggetto).
  8. Stimolare l’autoriflessività nel pz. facendogli fare un quadro chiaro e completo di quanto accade durante lo svolgimento di uno stato problematico.
  9. Tecniche di role-play.
  10. Uso della metafora (distinguibili in essa il topic, il veichle, il ground): il terapeuta propone nuove ipotesi interpretative della realtà.
  11. Dialogo socratico sinottico o confutatorio: formulazione di domande dirette ad attivare le risorse metacognitive del paziente (es. individuare gli elementi comuni tra diversi processi mentali).
  12. La ricostruzione storica (soprattutto delle esperienze traumatiche).
  13. promozione della capacità di riconoscere l’impossibilità di influire direttamente sulla realtà attraverso le aspettative, i pensieri e i desideri, e quindi la capacità di accettare i limiti di quel che è possibile fare per padroneggiare sé stessi o influire sugli eventi.
  14. Evocare una crisi dei punti di vista adottati dal pz. su sé stesso e sugli altri attraverso le seguenti strategie: la tecnica dell’avvocato del diavolo, la formulazione di domande destabilizzanti, l’invito a realizzare esperimenti comportamentali.
  15. Stimolare la capacità di decentramento.

Clinica dei deficit

Deficit di rappresentazione degli scopi.

Nella vita quotidiana, darsi degli scopi ed organizzare dei piani per raggiungerli è fondamentale. Se i essi affiorassero alla coscienza in maniera di sregolata saremmo paralizzati con il rapporto col mondo. Il processo di regolazione può risultare deficitario in due sensi:

per difetto (in alcune circostanze il soggetto non riesce a rappresentarsi almeno uno scopo definito);

per eccesso (overwhelming, il soggetto non riesce a compiere una selezione adeguata rispetto al contesto ed alla circostanza).

Ricordiamo che stiamo parlando NON della quantità, ma del deficit di accesso alla coscienza.

Il problema è che il pz.

  1. non riesce a focalizzare l’attenzione sugli scenari emotivamente rilevanti;
  2. non riesce a prefiggersi mete coerenti con il contesto.

Trattamento

  1. fare in modo che il pz. comprenda la natura del disturbo e delle sue manifestazioni;
  2. stabilire un contratto terapeutico;
  3. generare un aumento di consapevolezza degli scopi;
  4. sviluppare una capacità di gestione delle problematiche interpersonali;
  5. sviluppare il padroneggiamento delle esperienze di overwhelming.

L’obiettivo generale è lo sviluppo della sensazione della padronanza e di libera scelta anche, eventualmente, nella rinuncia, non necessariamente nell’assertività obbligata.

 Deficit di differenziazione.

 Diviso in due sottoclassi:

  1. deficit di differenziazione dei propri stati mentali (incapacità di riconoscere e caratterizzare le operazioni cognitive – quali pensare, ricordare, immaginare, credere, ecc. e gli stati emotivi – allegria, tristezza, rabbia, colpa, vergogna);
  2. deficit di differenziazione delle rappresentazioni degli stati interni e della realtà esterna (incapacità di riconoscere e separare le proprie rappresentazioni e costruzioni del mondo dalla realtà esterna; coincide largamente con il costrutto clinico dell’alessitimia).

Trattamento

  1.  colmare la distanza interpersonale che il muro di neutralità emotiva e la prevalenza di aspetti somatici crea e il fastidio che il terapeuta avverte nell’ascolto di storie nelle quali l’Io del pz. sembra scomparire dietro il racconto di inutili e dettagliati episodi.
  2. stabilire una relazione terapeutica dando la possibilità al pz. di effettuare in seduta operazioni metacognitive ad un livello superiore di quello che lui usa normalmente.

Il problema dell’integrazione: il deficit della funzione narrativa.

 La maggior parte dei processi di elaborazione dell’informazione e di integrazione degli elementi somatici, emotivi, cognitivi, avviene in modo inconscio, automatizzato, in parallelo. Lo stratagemma che la mente ha elaborato per tenere uniti una molteplicità di dati riguardanti soprattutto le relazioni interpersonali , sembra sia quello di organizzarli secondo copioni narrativiIn sostanza, a livello cosciente la mente rappresenta questo insieme di funzioni mentali sottoforma di storie.

Il modo in cui la persona organizza le storie sulla propria azione nel mondo è quindi una funzione mentale di base: se è lesa abbiamo patologia.

Caratteristica delle storie:

  1. hanno dei confini ben precisi (parlano di sé e del mondo ma solo di un’area limitata);
  2. si ha necessità di metanarrazioni (storie di storie);
  3. aiutano a sviluppare il pensiero narrativo (avere un adulto che racconta le favole prima di dormire consolida e acquieta; l’autonarrazione di storie, in età più adulta assume questa funzione).

Funzione delle storie:

  1. integrano l’informazione in entrata e la decodificano per attribuirvi senso. Un esempio è la ricorrenza dei temi onirici in una psicoterapia.

In un trattamento è necessario allora possedere un marker che delimiti le rappresentazioni fantastiche da quelle realistiche. Se nello sviluppo del bambino manca un adulto che aiuti a porre questo confine,  il bimbo può indugiare nella rappresentazione fantastica e mantenerla stabile con il rischi di sviluppo di modalità schizoidi.

TRATTAMENTO

Fare attenzione all’integrità della funzione narrativa (come un individuo sano si racconta e comunica buone storie riferite a sé) tenendo presenti questi indicatori:

  • unità in schemi coerenti (ordinate nello spazio-tempo ed accomunate da qualcosa);
  • raccontate a sé e agli altri in modo, per quanto possibile, chiaro e ordinato;
  • capacità di costruire storie sulle storie;
  • sapere raccontarsi la vita in modo metanarrativo;
  • possiedono un territorio ben delimitato.

I disturbi di cui sopra sono classificabili in due categorie:

    1. deficit di produzione delle narrazioni (che indica):
      • una scarsa capacità di autorappresentazione dei propri scopi;
      • scarsa capacità di rappresentazione della mente altrui;
      • senso cronico di non appartenenza ad altri contesti, ovvero incapacità di condivisione di stati mentali altrui.
  1. deficit di integrazione delle narrazioni – corrisponde a quello che gli psicoanalisti definiscono scissione delle rappresentazioni del Sé e dell’oggetto in tutto buono o tutto cattivo in corso di stati affettivi apicali (che indica):
  2. incapacità di identificare gli elementi di coerenza o di diversità del sé al mutare delle operazioni o degli stati mentali;
  3. fragilità della distinzione tra realtà e finzione che portano i pz. ad entrare in stati mentali spesso angoscianti ed a rappresentarsi le emozioni negative come reali; dette emozioni guidano poi il loro comportamento nel mondo.

Nel trattamento è importante la delimitazione del setting: “Qui parliamo di quello che lei pensa, di come lei immagina che la sua vita sia, non di quello che la sua vita è”; si dice che quello che avviene tra di loro non è “la” realtà ma è come se lo fosse. Il terapeuta deve coinvolgersi nella relazione comunicando con l’armamentario di emozioni mediate dai processi superiori.