La classica definizione di “malattia psicosomatica” concepita come insieme di disfunzioni fisiologiche e alterazioni somatiche originate da conflitti emotivi si è rivelata nel corso del tempo e soprattutto grazie ad approfondimenti scientifici concetto troppo restrittivo e fonte di ambiguità.

Le prime ricerche in questo ambito si focalizzarono soprattutto sul ruolo degli eventi stressanti, i così detti Life Change Units (Holmes e Rahe, 1967; quantità di cambiamenti avvenuti nella vita di un individuo in un determinato periodo di tempo) nello sviluppo e nell’incidenza di diverse patologie, tra le quali diabete, ulcera duodenale, problemi cardiovascolari ecc.

Benché di indubbio interesse speculativo tali indagini si sono dimostrate ad un’analisi più attenta non pienamente attendibili (l’indice di correlazione tra eventi stressanti e stato di salute ha raramente superato lo 0.30; Rabkin e Struening, 1976; Rahe e Artur 1978) mentre altri studi hanno messo in luce come fosse la percezione soggettiva dell’evento stesso piuttosto che il suo peso specifico nell’unità di tempo a determinare l’impatto sull’organismo (Lazarus, 1966; Chiriboga, 1977).

Partendo da queste premesse l’interesse dei ricercatori si è sempre più focalizzato sullo studio dei fattori di rischio che sembrano accrescere la suscettibilità alle malattie, e diversi studiosi partendo dalle osservazioni cliniche e dai resoconti offerti dai loro pazienti ipotizzarono che fosse un disturbo nella capacità ad identificare ed esprimere le emozioni a predisporre lo sviluppo di alcune malattie psicosomatiche.

Paul MacLean (1949) evidenziò come molti pazienti psicosomatici manifestassero una forte incapacità a mentalizzare e a verbalizzare le proprie esperienze emotive, ipotizzando che tali affetti disturbanti invece di trovare adeguata espressione nella parola, utilizzassero come canale privilegiato le vie nervose autonome, dando così luogo a una sorta di “linguaggio organico” che alla lunga era in grado alterazioni l’attività del substrato fisiologico.

Nello stesso tempo Jurgen Ruesch (1948) mostrò un analogo disturbo dell’espressione emotiva caratterizzato dalla presenza di caratteristiche di personalità di tipo infantile come ad esempio dipendenza e passività, pensiero imitativo e rigidità morale, tendenza al passaggio all’azione, aspirazioni eccessivamente elevate e conformismo sociale, nonché arresto e deterioramento dell’apprendimento sociale.

Intorno agli anni ’60 altri studiosi (Marty e de M’Uzan 1963) sollecitati da tali ricerche coniarono il termine di “pensiero operatorio” per descrivere una modalità di funzionamento mentale caratterizzata da povertà immaginativa, adesione alla realtà, preoccupazione per i minimi particolari e incapacità di produrre fantasie, osservando come questo tipo di attività intellettuale fosse collegata a quadri di malattia psicosomatica.

Nello specifico è bene però ricordare come non sia stata individuata una ben definita relazione di causalità tra malattia psicosomatica e alessitimia e come quest’ultima non sia un fenomeno tipo “tutto o niente” tanto che in una certa misura è possibile riscontrarla in ogni individuo.

È importante però come ricordano Taylor, Bagby e Parker che (1997 pag. XIV) “l’alessitimia è un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interrompe o interferisce seriamente con i processi di auto-organizzazione e riorganizzazione dell’organismo” e di conseguenza modalità di funzionamento alessitimico sono sovente associate a disturbi psicosomatici.

L’interesse intorno al tema dell’alessitimia negli ultimi decenni si è amplificato tanto da essere posto al centro della XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche (Heidelberg 1976) orientando lo sguardo dei ricercatori sulla relazione tra alessitimia e altri tipi di disturbi.

Una delle aree di indagine più interessanti è quella della relazione tra alessitimia e somatizzazione, Shipko (1982) somministrò la SPSS (Schalling-Sifneos Personality Scale) a 3 diversi gruppi di soggetti: un gruppo di pazienti con tendenza alla somatizzazione, un gruppo di controllo e uno di individui che avevano riportato nella loro vita storie di disturbo psicosomatico.

I risultati mostrarono differenze significative tra i differenti gruppi e in particolare gli individui con tendenze alla somatizzazione riportarono un indice di alessitimia significativamente superiore rispetto agli altri.

In un’altra ricerca venne indagato il rapporto tra alessitimia e lamentele somatiche in un gruppo di 118 soggetti afferenti al dipartimento psichiatrico di un importante ospedale nelle Hawaii e si mise in luce come i soggetti alessitimici manifestassero un atteggiamento lamentoso, una modalità di pensiero dipendente e una tendenza all’acting significativamente superiore rispetto agli altri (Taylor, Bagby e Parker 2000).

Un ulteriore approfondimento di questa questione è quello affrontato da Postone (1986); considerando il dolore cronico come uno dei sintomi più noti nei quadri di somatizzazione osservò che effettivamente i soggetti che presentavano dolori cronici erano significativamente più alessitimici rispetto al gruppo di controllo.

Tutti questi dati sono in accordo con le osservazioni di Krystal (1990) che evidenzia come i soggetti alessitimici tendano a concentrarsi sulle sensazioni fisiologiche come eventi a se stanti risultando incapaci di codificare le emozioni per elaborare le informazioni.

Un altro filone interessante è quello in cui si concettualizza il disturbo da attacchi di panico all’interno dei quadri di deficit nella regolazione degli affetti, in particolare gli autori che si sono occupati di questo tema pongono la loro attenzione sulla storia evolutiva del soggetto evidenziando che il fallimento del caregiver primario nel fornire al bambino un maternage adeguato comporti tra le altre cose, un’incapacità acquisita nell’utilizzare gli affetti come segnali.

Questi individui carenti nella capacità di utilizzare tali segnali e di mobilitare le difese più evolute, verrebbero così travolti dal dilagare di affetti indifferenziati (Baumbacher, 1989).

Altre ricerche (Faravelli e Albanesi 1987, Noyes et al. 1993) hanno invece posto il loro accento sul rapporto tra alessitimia e Disturbo Post Traumatico da Stress, concependo quest’ultimo sempre come un deficit nell’elaborazione degli affetti.

Il trauma è definito dal DSM IV come “l’esposizione a una situazione nella quale le persone sperimentano, sono testimoni o si confrontano con un evento che implica la morte attuale o minacciata o seri danni o minacce alla propria o altrui integrità fisica”; il DPTS sarebbe quindi caratterizzato dal timore incessante di ri-sperimentare tale evento, associata all’attivazione di potenti difese, tra le quali l’evitamento e da un livello di arousal aumentato.

La vita di questi soggetti è come si fosse fermata all’evento traumatico, ed essi agiscono evitando massicciamente qualsiasi stimolo associato all’evento stesso.

Una parte di loro mostra inoltre difficoltà a ricordare aspetti importanti della situazione traumatica, un interesse diminuito per l’ambiente esterno nonché alti livelli di alessitimia.

In una interessante ricerca (Shipko, Alvarez e Noviello 1983) il campione sperimentale costituito da reduci del Vietnam con diagnosi di DPTS mostrò livelli di alessitimia ben 5 volte superiori rispetto a quello di un gruppo di controllo.

In un altro studio (Zeitlin, McNally e Cassiday (1993) vennero confrontati i livelli di alessitimia misurati su un gruppo di donne vittime di aggressioni sessuali con, e senza diagnosi di DPTS, e un gruppo di controllo.

I risultati mostrarono che le vittime di stupro risultavano più alessitimiche rispetto a quelle del gruppo di controllo e che all’interno del primo sottocampione (diagnosi di DPTS) i livelli più alti di alessitimia erano collegati alla gravità del trauma scatenante e alla cronicità dei danni fisici da esso provocati.

Tutte queste indagini non sono però riuscite a dare una risposta definitiva al fatto che l’alessitimia sia un fattore di rischio per lo sviluppo di un DPTS o se invece sia una reazione a un trauma (Krystal 1988).

Partendo proprio dalle ricerche sui sopravvissuti alle persecuzioni naziste, Krystal (1983, 1988) ipotizzò come un trauma psichico che si verifichi durante l’infanzia, avrebbe come conseguenza un arresto dello sviluppo affettivo, mentre il suo corrispettivo in età adulta comporterebbe una regressione di tale sviluppo.

In entrambi i casi però i soggetti risulterebbero compromessi nella loro capacità di utilizzare gli affetti come segnali.

Sifneos (1988) definisce questo fenomeno alessitimia secondaria, e ricollegandoci a quanto sopra esposto, potrebbe rappresentare una ulteriore manifestazione del meccanismo dell’evitamento.

Inoltre come recentemente evidenziato da Brunello (Brunello et al. 1992) il verificarsi di un evento traumatico non è causa sufficiente per lo sviluppo di un DPTS, (soltanto il 10-20% sviluppa una patologia conclamata) ma assume invece il ruolo di fattore eziologico nel momento in cui agisce su un individuo con determinate caratteristiche, una delle quali sarebbe proprio rappresentata dall’alessitimia.

Un altro ambito di ricerca che negli ultimi anni ha assunto un importanza crescente, (grazie anche all’allarme sociale da esso provocato) è quello del rapporto tra alessitimia e disturbo da abuso di sostanze.

C’è da dire che anche in questo caso non sono state individuate risposte univoche che chiariscano se l’alessitimia sia una conseguenza dell’abuso di sostanze o ne rappresenti un fattore causale.

In uno studio Krystal e Raskin (1970) mostrarono che i soggetti tossicomani avevano una coscienza vaga dei loro affetti percependoli prevalentemente in modo indifferenziato (non erano in grado di descrivere separatamente sentimenti di ansia e depressione) e la loro attenzione era inoltre concentrata sul versante somatico dell’attivazione emotiva.

Questi pazienti quindi, incapaci di utilizzare gli affetti come segnali non erano in grado di far fronte all’impatto degli affetti negativi che invece venivano contenuti dall’uso delle sostanze.

Inoltre, mancando di consapevolezza delle proprie emozioni, non erano in grado di empatizzare ed entrare in sintonia con gli stati emotivi altrui e mostravano anche una evidente incapacità di prendersi cura di se stessi.

In una importante ricerca Taylor (Taylor et al. 1990) mette in luce come i livelli di alessitimia riscontrati nel suo campione siano una conseguenza dell’incapacità dell’io di gestire gli affetti dolorosi e come questa incapacità rappresenti un fattore di rischio nello sviluppo di un disturbo da abuso di sostanze, a causa proprio del ruolo compensatorio giocato dalle sostanze.

Questa tesi sarebbe poi in accordo con l’idea di Khantzian (1985) sul ruolo delle sostanze come forma di “autoterapia” i soggetti tossicomani infatti potrebbero utilizzare le droghe per modulare le emozioni dolorose, o in altri casi, per far fronte alla “confusione emozionale”, attribuendole un significato preciso e comprensibile.

Un’altra posizione epistemologica è tuttavia quella fornita da Haviland (Haviland et al. 1991) che sottolinea come i pazienti che soffrono di un disturbo di abuso di sostanze sviluppino l’alessitimia come fattore secondario a una grave depressione o ansia, rinforzando quindi il ruolo di difesa dell’alessitimia stessa.

Altri ricercatori hanno concentrato il loro interesse allo studio dei disturbi del comportamento alimentare e alla possibile relazione con l’alessitimia (Bourke et. Al. 1992, Engel e Meier 1988, Jimerson et al. 1991), concettualizzando quindi tale patologia nel quadro dei disturbi della regolazione degli affetti.

Come già evidenziato anche in questo caso le ricerche non hanno chiarito precisamente se l’alessitimia, abbia un ruolo primario o sia secondaria allo sviluppo del disturbo, anche se l’esplorazione continua su questo versante (Schmidt et al. 1993).

Numerose ricerche invece hanno osservato come le emozioni negative sono sovente alla base dello svilupparsi della crisi bulimica, e che quindi il comportamento disfunzionale sia una sorta di tentativo di regolare tali emozioni (Abraham e Beaumont 1982, Kaye et al. 1986, Leon et. al 1985).

Il comportamento alimentare disfunzionale, inoltre assumerebbe la stessa funzione dell’abuso di sostanze per i tossicodipendenti, e non a caso è stata riscontrata un alta comorbilità tra questi 2 quadri nosografici.

Carenti nella capacità di autoregolarsi inoltre i pazienti con diagnosi di disturbo alimentare risulterebbero eccessivamente dipendenti da fattori esterni, quali mode e ideali culturali nel costruire un’adeguata immagine di sé.

Il costrutto dell’alessitimia sembra inoltre fortemente correlato con determinate caratteristiche di tale disturbo quali, preoccupazioni corporee, impulsività, bassa tolleranza alla frustrazione, mancanza di introspezione, difficoltà nel comunicare i propri sentimenti e carente autostima.

La ricerca su questi temi si sta largamente diffondendo anche allo studio delle così dette malattie somatiche, che sempre più vengono considerate, come disturbi della regolazione psicobiologica e a tale proposito è utile riportare la citazione di Bakal (1979) secondo la quale “la maggior parte delle malattie sono di origine multifattoriale, hanno cause sia psicosociali che fisiche” .

Una serie di studi hanno messo in evidenza ad esempio il ruolo di determinati fattori di personalità nello sviluppo di patologie come il cancro (Graves e Thomas, 1981), in particolare la predisposizione a tale disturbo veniva associata a un quadro di costrizione e controllo emozionale.

Altre interessanti indagini hanno suggerito seppure in maniera indiretta il ruolo dell’alessitimia nello sviluppo dell’ipertensione, in particolare, la difficoltà ad esprimere i sentimenti o al contrario la loro estrinsecazione provocherebbe cambiamenti nella pressione sanguigna.( Lynch et al. 1992).

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